Il canto delle tortore

Le ore insonni della notte portano sempre un messaggio e come tutte le ore che viviamo annunciano qualcosa. Le palpebre abbassate ma vigili sono alla ricerca del sonno atteso attraverso uno schermo oscuro ma non vuoto, vedono ricordi, volti, luoghi. Il buio racchiuso dietro di esse non è nero, è vita ed è abitato spesso da immagini di vita del giorno che verrà. Per Guido quel giorno sarebbe stato il giorno di un incontro atteso da tempo. Da troppo tempo ormai. Dischiuse gli occhi lentamente, dalle imposte abbassate vide filtrare la luce, era l’alba e il canto delle tortore fu la prima cosa che sentì, ovattato nello stordimento del dormiveglia, quasi un lamento, continuo, ossessionante, quasi rumore insopportabile, quasi chiasso da evitare. Da sempre aveva considerato quel grugare continuo che finiva esaltando l’ultima nota, un suono fastidioso e insostenibile. Adesso no! Adesso tutte le cose avevano un aspetto diverso. Anche il canto di quegli uccelli, che lo aveva sempre irritato, adesso, in tempi di pandemia, aveva un altro sapore. Appariva dolce, piacevole, delicato. Il pensiero lo riportò indietro negli anni, a quand’era bambino, la stessa letizia che provava, la stessa gioia, lo stesso incanto e lo stesso stupore di fronte a qualcosa di nuovo, ad ogni nuova scoperta. Si vestì velocemente e scese le scale, quella sarebbe stata una mattina particolare, avrebbe rivisto sua madre. Nulla di strano se non fosse stato chiuso in casa da oltre due mesi. Per legge. La pandemia ancora incombeva, mieteva ogni giorno centinaia di vittime e solo nelle ultime settimane aveva parzialmente rallentato la sua corsa. Ecco oggi sarebbe uscito nuovamente dopo il confinamento. Lock down l’avevano chiamato.

Guido prese con sé la mascherina protettiva, salì in macchina e mise in moto, percorrere il viale alberato aveva un sapore diverso, era maggio e le siepi dei giardini erano sprizzati di rose e di ciclamini, era un’esplosione di cieli aperti, di finestre dischiuse all’aria nuova e ad un rinato brusire tra le nuvole rosa dei cespugli in fiore. Mancava però il festoso vociare tra le case e le strade, le corse dei bimbi nella piazza di fronte alla scuola, le donne frettolose con i sacchetti della spesa. Era un maggio strano quello. Alla fermata degli autobus alcune persone erano in fila, distanziate nell’attesa. Perfino il portone della Chiesa era chiuso, fresca di restauro, gli apparve come morta al centro del grande piazzale irregolare e vuoto. Era proprio un maggio strano quello. Infastidito pigiò sull’acceleratore e ripensò alla mamma e alla gioia che avrebbe provato nel rivederla.

Rivide il suo sorriso e a quando, tornato da scuola, lo stringeva forte e lui strizzava gli occhi compiaciuto, annusava la vestaglia che aveva odore di lavanda che dava sicurezza.

Un odore di sacrifici e di ansie, ma anche un odore prezioso di tenerezza, di cose buone e di sorrisi

Suonò a un pedone distratto che stava per attraversare e dette un’occhiata allo specchietto retrovisore. La strada scompariva dietro le sue spalle ed aveva l’aspetto di un posto diverso, sconosciuto, di qualcosa di nuovo ancora da scoprire. Pensò che quel maledetto nemico invisibile chiamato Covid-19 era riuscito a cambiare, oltre alle persone, anche i palazzi, i giardini e le mura della sua città. La giornata appariva deliziosa, di una tale dolcezza e di una luce così tenera che spingeva all’evasione e di nuovo ripensò a quando era bambino e alla madre che da lì a poco avrebbe finalmente rivisto. Nei due mesi di blackout forzato, l’affanno e l’ansia di vivere nello spazio ristretto ed ostico delle quattro mura di casa avevano reso asmatico l’esistere. Quel tempo aveva sviluppato in lui una sorte di resilienza sconosciuta e riparatrice. Aveva sofferto molto. Era stato colpito e offeso nell’anima ma in questa tempesta di dolore aveva anche imparato ad amare appassionatamente la vita, le cose semplici, gli altri. Anche questa volta, come da bambino, la madre veniva in soccorso a fugare la sua tristezza, la sua solitudine, la sua poca voglia di vuoto. Sapeva Guido, nonostante l’età adulta, che era lui ad avere ancora bisogno di lei e non viceversa. Sapeva che prima o poi, ciascuno sarebbe stato chiamato a restare sereno nella tempesta. Per esserlo occorreva aver coltivato uno spazio interiore profondo, fatto di piccoli gesti d’amore e proprio per questo grande e saldo come un pilastro di un ponte durante la piena. Sua madre gli aveva insegnato anche questo.

«Chi è?»

«Sono io mamma. Apri»

Si aggiustò la mascherina a coprire anche il naso, salì le scale esterne di corsa, e vide che la porta era aperta. Sulla soglia riconobbe la madre ricurva appoggiata al bastone.

C’era intorno a quella figura anziana e canuta un’aura oltre il tempo che donava al suo viso una dolcezza infinita.

Guido avrebbe voluto abbracciarla ma non lo fece, il rischio di trasmettere il virus era troppo grande. Allora la guardò e strinse gli occhi come faceva da bambino, annusò l’aria e avvertì forte l’odore di lavanda. In quel medesimo istante sentì cantare una tortora. Sorrise felice.

ao

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