“Ferrara”

“Ferrara” non era il cognome ma un soprannome come tanti. Nessuno sapeva il motivo per il quale in paese glielo avessero dato, forse perché era originario di quella città oppure perché quella parola aveva l’intento di ricordare la materia, il ferro, l’acciaio. Sta di fatto che Ferrara era un gigante di due metri, i capelli arruffati, la tuta blu e il colore delle mani e del viso scuro come l’antro fumoso nel quale sul fuoco forgiava il metallo. Ai miei occhi di bambino era l’uomo nero delle fiabe ma non ne avevo paura perché il suo sguardo era dolce e il sorriso buono. “non entrare, aspetta lì” mi diceva, ed io stavo sulla soglia di quella stanza buia e piena di fumo e di vapore, illuminata solo da un alto lucernario e il bagliore delle fiamme. Ogni tanto l’uomo usciva a guardare il cielo e faceva respiri profondi prima di rientrare in bottega e continuare a battere ringhiere, cardini, zappe, catene. Io aspettavo in disparte lo guardavo lavorare incantato, sapevo che prima o poi sarebbe venuto a darmi la solita caramella.  Aveva una moto Ferrara, un’imponente Guzzi, rossa e lucente, gigantesca e meravigliosa ai miei occhi. Tutti quei comandi mi incuriosivano e attiravano come un pezzo di cioccolata. Sognavo di poterci salire e guidarla veloce per le strade bianche e polverose di quella campagna toscana dove passavo l’estate. A volte Ferrara, tenendomi stretto mi metteva sul sedile e mi faceva mettere le mani sul manubrio, a volte accendeva anche il motore ed io ridevo impazzito di gioia. “da solo mai. Stai attento” si raccomandava “che ti casca addosso”. Un giorno, di nascosto, mentre salivo e scendevo saltando sulle pedane, la Guzzi scivolò dal cavalletto ed io rimasi sotto prigioniero. Gridai e in un attimo la figura di quel gigante buono si materializzò coprendo la luce del sole e rialzò la moto come fosse stata un fuscello. Mi prese in braccio e prima di consegnarmi alla mamma, mi accarezzò dandomi la solita caramella ed io rassicurato smisi di piangere. Ne è passato del tempo e adesso di Ferrara si racconta come delle cose che restano, epico, come un ricordo che serve per dar forza a un discorso, su come deve esser fatto un buon lavoro, sulle tempre degli uomini di una volta che non nascono più. Memorie di un periodo breve, intenso, che non muoiono mai. Adesso che ci penso, di quel gigante buono, forte come l’acciaio, i capelli arruffati e la tuta blu non ho mai saputo il vero nome.

a.o.

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